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  1. Quando si parla di Formula 1 e di team storici che hanno fatto la storia di questo sport, è difficile non dimenticare il contributo e le gesta di Eddie Jordan, arrivato nel Circus iridato con una propria squadra solamente nel 1991 e con quella monoposto verde che, a Spa-Francorchamps, ha fatto brillare la luce del mitico Michael Schumacher. La Jordan Grand Prix è stata uno dei più importanti bacini in grado di coltivare i giovani talenti della massima serie automobilistica: non solo il super-Campione nato a Kerpen, ma anche i suoi futuri compagni di squadra Eddie Irvine e Rubens Barrichello, così come il fratello Ralf Schumacher e l’acerrimo amico-nemico Heinz-Harald Frentzen, entrato a far parte del team in quel 1999 che fu – tra l’altro – anche l’anno migliore in fatto di risultati. Dalla debuttante 191 motorizzata Ford il team Jordan Grand Prix è passato prima ai propulsori Hart (dopo la parentesi del 1992 con Yamaha), poi ai Peugeot e infine ai Mugen-Honda, che l’hanno portata costantemente nella Top 5 dei Costruttori del Mondiale di F1 di fine anni ‘90 – inizi anni 2000. Le monoposto dell’epoca erano sponsorizzate dalla marca di sigarette Benson & Hedges, che rivestì di giallo degli chassis impreziositi, sul musetto, prima dal famoso “serpente” della 197 e poi dallo “squalo” della EJ-11, che è tra l’altro la protagonista di questa monografia. JORDAN EJ-11: I SUCCESSI VANNO COSTRUITI A PICCOLI PASSI La storia della Jordan EJ-11, tuttavia, va fatta risalire proprio alla prima “giallona” del team di Eddie Jordan, quella 197 equipaggiata con il 3 Litri Peugeot A14 a frazionamento V10 capace di erogare la bellezza di 750 cavalli. Dopo un 1996 alquanto deludente, il team manager irlandese decise di sostituire i suoi piloti con due rookie molto promettenti, vale a dire il nostro Giancarlo Fisichella e il tedesco Ralf Schumacher. L’azzardo pagò, perché il fratello di Schumi, nonostante gli innumerevoli ritiri, centrò il terzo posto al Gran Premio d’Argentina, mentre “Fisico” si mise in luce per la medaglia di bronzo in Canada e quella d’argento in Belgio. Fu con l’arrivo di Damon Hill l’anno successivo, tuttavia, che la Jordan Grand Prix arrivò sul tanto agognato gradino più alto del podio, in quel famoso GP a Spa-Francorchamps sotto la pioggia battente che vide ben tre partenze, un disastro conclamato dopo la prima curva per via dell’incidente di Coulthard e il crash di Michael Schumacher sempre contro l’inglese della McLaren che fece finire la sua Ferrari su tre ruote e, inesorabilmente, ai box. La vittoria di Hill in quella gara fu il trampolino di lancio per la Jordan, che sfruttò la potenza (e l’affidabilità) aggiuntiva delle motorizzazioni Mugen-Honda per vivere un 1999 da vera protagonista. In quella stagione Ralf Schumacher fu sostituito dal connazionale Heinz-Harald Frentzen, che portò nella cassaforte di Eddie Jordan altri due successi (in Francia e a Monza), tre terzi posti (in Brasile, in Germania e in Belgio) e una medaglia d’argento al debutto assoluto in quel di Melbourne. JORDAN EJ-11: DALLE CENERI DELLA MONOPOSTO DEL 2000 Evoluzione della 198, la Jordan 199 riuscì ad ottenere dei risultati così incoraggianti grazie alle cure dell’ingegner Michael Robert Gascoyne, che seppe massimizzare tutti i pregi del telaio a livello aerodinamico. Attraverso molteplici test in galleria del vento questa monoposto venne dotata di due pinne davanti alle fiancate per indirizzare meglio il flusso dell’aria proveniente dal nuovo alettone anteriore, che lavorava meglio rispetto a quello della vettura precedente in sinergia con il nuovo fondo provvisto di carenatura. Per migliorare la distribuzione dei pesi, inoltre, il serbatoio venne spostato verso il basso, mentre a livello di motore la Jordan Grand Prix sfruttò i vantaggi dell’inedito MF-301HD messo a disposizione da Mugen-Honda – non solo più potente ma anche più compatto e utile ad abbassare ulteriormente il baricentro della macchina. La successiva EJ-10, anche in versione B, fu invece un fiasco: ottima in qualifica e sul giro secco, questa monoposto soffrì parecchi problemi di affidabilità che costrinse la nuova coppia Frentzen – Trulli a numerosi ritiri mentre era in lotta per le posizioni importanti della classifica. I casi di Melbourne e di Montecarlo, su tutti, rappresentano l’immagine di una stagione 2000 con frequenti noie di elettronica e di gestione delle gomme, che permisero al solo pilota tedesco di collezionare due terzi posti ad Interlagos e negli Stati Uniti. JORDAN EJ-11: LA MONOPOSTO CONDIVISA DA QUATTRO PILOTI Con un sesto posto nella Classifica Costruttori a fronte della medaglia di bronzo centrata nel 1999, l’obiettivo per il 2001 era quello di riprendere il discorso dove era stato interrotto due stagioni prima. Sotto la supervisione di Gascoyne e di un team formato da Eghbal Hamidy, Tim Holloway, Mark Smith, Bob Bell e John Iley, nacque così la EJ-11, prima vettura della squadra irlandese a utilizzare i propulsori V10 ufficiali della Honda, gestiti non più da un cambio a sei marce ma da uno più efficiente a sette rapporti. Rispetto alla precedente EJ-10B, la nuova creatura firmata Jordan venne disegnata anche con un musetto più rialzato da terra allo scopo di favorire il passaggio del flusso dell’aria sotto la zona anteriore del telaio e, quindi, l’efficienza aerodinamica in fatto di downforce generata alle alte velocità. Sullo stesso muso, inoltre, vennero stilizzati per la prima volta gli occhi e i denti di uno squalo, al posto di quelli di un serpente come era accaduto fino alla stagione precedente. Con questi presupposti la stagione 2001 iniziò con la massima fiducia possibile, avvalorata nei primi appuntamenti da un Frentzen capace di piazzarsi costantemente nella Top 5 della classifica. Lo stesso fece il suo compagno di squadra Jarno Trulli, il quale però andò incontro nel finale del Campionato a ben cinque ritiri consecutivi causati da noie meccaniche ed elettroniche dovute alla scarsa affidabilità del pacchetto a sua disposizione. Non andò meglio al tedesco, protagonista di un grave incidente a Montecarlo che rese necessario trovare un sostituto per il successivo GP del Canada - dove scese in pista il brasiliano Ricardo Zonta. La sua performance? Solamente settimo al traguardo. Il ritorno di Frentzen al Nurburgring, tuttavia, non risolse la situazione: dopo il round di Silverstone il suo sedile fu affidato definitivamente a Jean Alesi, che corse le ultime cinque tappe fino al gran finale di Suzuka. Il Giappone, tuttavia, fu anche l’ultimo appuntamento iridato per il francese, che poche settimane prima conquistò i suoi ultimi punti in Belgio: in quel di Suzuka Alesi centrò la Sauber di Kimi Raikkonen, rimasta ferma in mezzo alla pista per la rottura della sospensione posteriore sinistra. L’impatto fu molto violento, ma i due piloti uscirono illesi dalle rispettive monoposto. In ogni caso, la EJ-11 verrà ricordata per essere una vettura particolarmente veloce in qualifica, ma poco costante e affidabile durante il passo gara. La volete vedere in azione? Eccola qua sotto sul simulatore Assetto Corsa!
  2. Vi è piaciuta la Subaru Impreza di Colin McRae? Allora questa vi evocherà ancora più ricordi nostalgici, soprattutto a chi ha vissuto la Formula 1 di fine anni ‘80 – inizi anni ‘90. Siamo nel 1988, stagione che sarà l’ultima a portare in pista i sibilanti motori turbo-compressi a favore dei più rumorosi aspirati con frazionamento V10 e V12. Dopo i successi iridati di Niki Lauda e di Alain Prost nel 1984 e nel 1985 con le MP4/2 motorizzate TAG Porsche, la McLaren stipula quella storica collaborazione con la Honda che darà vita alla leggendaria MP4/4, una tra le monoposto più vittoriose (se non LA monoposto più vittoriosa) di sempre con ben 15 successi ottenuti su 16 round disputati. Il Titolo di quell’anno? Andò al “Campeao” brasiliano, a quell’Ayrton Senna che lottò con le unghie e con i denti con il rivale Prost: una bagarre che, a tutti gli effetti, spianò la strada a uno dei binomi, quello della McLaren e del pilota carioca, più trionfanti di tutti i tempi. McLAREN-HONDA MP4/4: TUTTO È INIZIATO CON LA BRABHAM La storia della MP4/4, ideata dai progetti di Gordon Murray e Steve Nichols, inizia due anni prima della sua comparsa in pista: nel 1986, infatti, l'ingegnere sudafricano portò alla luce la Brabham BT55, una vettura particolarmente competitiva sotto il profilo fluidodinamico ma che non riuscì nel proprio intento di aggredire i migliori della categoria a causa della scarsa affidabilità e delle insufficienti prestazioni del motore BMW inclinato. Il propulsore tedesco era un 4 cilindri in linea con la peculiarità di essere molto alto nel suo sviluppo: proprio il contrario di ciò che era richiesto per ottenere una monoposto filante e con la minima altezza da terra. Al fine di ottenere un miglioramento aerodinamico, fu inclinato di 72° ma questa soluzione comportò gravi problemi di lubrificazione e di combustione, oltre ad essere del tutto sbilanciato per il centro di gravità dinamico posto sopra la linea di cintura della vettura. A livello di prestazioni, in più, il motore BMW non era decisamente all'altezza della concorrenza a causa di una scarsa risposta dell'acceleratore che produceva un ritardo (il famoso “turbo-lag”) nell'entrata in funzione della turbina di circa due secondi. Nonostante ciò, la Brabham BT55 poteva contare su caratteristiche davvero interessanti, che furono poi utilizzate nei progetti McLaren MP4 degli anni successivi: secondo Gordon Murray sfruttare le linee della monoposto britannica avrebbe ridotto del 30% la sezione frontale, il che, assieme alla già citata linea di cintura particolarmente bassa, avrebbe diminuito di conseguenza la resistenza all'avanzamento, a tutto vantaggio della velocità di punta e dei consumi. In aggiunta, un layout del genere avrebbe generato anche una maggiore massa d'aria in direzione dell'alettone posteriore, incrementando il carico aerodinamico sulle ruote motrici. In soldoni? Maggiore trazione e velocità di percorrenza in curva. McLAREN-HONDA MP4/4: L’ULTIMA VERA MONOPOSTO TURBO Di fronte a tanto margine di sviluppo, nel 1987 l'ingegnere sudafricano fece da consulente a Steve Nichols, progettista della MP4/3 per la quale riprese ciò che c'era di buono della precedente MP4/2 di John Barnard. A parte il musetto, tutta la vettura venne riprogettata abbassando il centro di gravità e la linea di cintura, ma anche ridisegnando le fiancate con le prese d'aria di sfogo dei radiatori ai lati anziché sulla parte superiore. La diretta conseguenza fu un abbassamento dell'altezza complessiva della monoposto, che tuttavia non si dimostrò di nuovo al livello della concorrenza per via del suo motore. Il TAG Porsche TTE PO1, un V6 con angolo tra le bancate dei cilindri di 80°, si rivelò poco affidabile a causa delle modifiche al regolamento che videro un abbassamento della capacità massima dei serbatoi da 220 a 195 litri, assieme alla restrizione della pressione di sovralimentazione limitata a soli 4 bar. Questa vettura, tuttavia, servì per dare vita alla successiva MP4/4: era il 1988 e le regole erano cambiate di nuovo, perchè si poteva scegliere tra i motori aspirati di 3500cc senza limiti di consumo oppure quelli turbocompressi (banditi dall'anno successivo) limitati a 1500cc di cilindrata con una pressione di sovralimentazione ulteriormente ridotta a 2,5 bar, oltre a serbatoi da 150 Litri per la distanza di gara. Riservando al 1989 la successiva MP4/5 con motore V10, la McLaren optò per la seconda soluzione: durante l'inverno Ron Dennis riuscì a convincere la Honda a fornirgli i propri motori anziché proseguire la partnership con la Williams e così il nuovo progetto potè partire con un inedito V6 con angolo di bancata di 80°. Si trattava dell'unità RA168E, un biturbo da circa 650 cavalli modificato per limitare al massimo il consumo di carburante e per sfruttare nel migliore dei modi la potenza ai medi regimi. A livello di propulsore, fu l'unica monoposto progettata appositamente per gareggiare con un motore turbo, dal momento che tutte le altre scuderie avevano pensato di adattare ex vetture turbo con la tecnologia aspirata oppure di riutilizzare progetti vecchi dell'anno precedente. Per quanto riguarda l’aspetto della monoposto in questione, la modifica più tangibile fu sicuramente il muso, più slanciato e rastremato: venne ridotta ulteriormente la sezione frontale, il che portò ad un incremento nelle dimensioni dell'alettone anteriore e ad una riduzione dell'altezza da terra, adattamenti necessari per la nuova norma di collocare la pedaliera delle scocche di nuova concezione dietro l'asse delle ruote anteriori. Quest'innovazione ha donato alla MP4/4 anche un'altra caratteristica, ovvero la posizione di guida quasi sdraiata anziché seduta, che ha fatto da precursore a quelle che vediamo nelle monoposto di oggi. Un'altra novità fu l'eliminazione delle prese d'aria delle turbine, perchè si pensava potessero creare dei vortici in grado di disturbare il flusso d'aria verso la superficie alare posteriore. Nella fase pre-stagionale venne testato anche un sistema di sospensioni attive, poi abbandonato perchè ritenuto inaffidabile; inoltre, dal momento che la competitività arrivò subito ai massimi livelli, non furono previsti troppi “upgrade” come possibili evoluzioni durante il Campionato, tranne alcuni profili alari specifici per i circuiti rispettivamente da basso e da alto carico aerodinamico. McLAREN-HONDA MP4/4: SUPERIORITÀ IMBARAZZANTE Già dai primi test pre-stagionali divenne evidente quanto le scelte tecniche portate in dote dalla McLaren MP4/4 la rendessero una monoposto estremamente difficile da battere: ad Imola il record del circuito fu demolito in pochissimi giri, mentre nella prima gara in Brasile Alain Prost portò questo gioiello a quattro ruote subito sul gradino più alto del podio. Dopo la promettente pole position del sabato, invece, Ayrton Senna ruppe il cambio ancora prima di schierarsi in griglia di partenza, il che lo costrinse a partire con il muletto. Risultato? Squalifica da parte della FIA, perché la scelta fatta era vietata dal regolamento. Un vero peccato, perché il brasiliano aveva dato spettacolo con una fenomenale rimonta fino alla seconda posizione, che testimoniava una volta di più la superiorità della MP4/4. A tal proposito, le indagini della FIA a fine gara rivelarono fondate anche le chiacchiere sui consumi bassissimi della McLaren, dal momento che nel serbatoio di Prost era rimasto addirittura un litro e mezzo di carburante (precisamente segnalato dal computer di bordo). Fu nel secondo round di Imola, tuttavia, che gli altri team dovettero piegarsi definitivamente a quanto era in grado di fare la MP4/4: Senna conquistò di nuovo la prima casella con uno stratosferico 1.27.148, seguito da Prost a sette decimi e dal Campione del Mondo in carica Nelson Piquet con la Lotus... a poco meno di tre secondi e mezzo di distacco. Un gap riconfermato nella gara della domenica, in cui il duo McLaren-Honda, che girava costantemente sotto l'1.30, sbaragliò la concorrenza doppiando tutti entro la distanza stabilita dei 60 giri previsti. Una prova di forza schiacciante per una stagione dominata praticamente dall’inizio alla fine, in cui le uniche difficoltà furono incontrate negli appuntamenti di Monaco, Monza e Silverstone. Sul circuito cittadino di Montecarlo Ayrton Senna, dopo l'ennesima pole position con cui si era messo dietro Prost addirittura di 1.4 secondi, era davanti al compagno di squadra francese con un margine di poco meno di un minuto quando al giro 66 andò a sbattere contro le barriere di protezione della curva 8, la Portier prima del tunnel. Un errore dovuto al fatto che, a detta sua, non stava più guidando “coscientemente” e ad ogni tornata voleva essere sempre più veloce: così facendo è caduto nella trappola dell'esagerazione, regalando al rivale una vittoria sul piatto d'argento. A Monza, invece, la battuta d'arresto venne accusata da entrambi: Alain si dovette ritirare per l'unico problema meccanico della stagione (al motore), mentre il brasiliano entrò in contatto durante il doppiaggio della Williams di Jean-Louis Schlesser alla prima variante proprio quando era in testa alla corsa. Questa fu l'unica occasione in cui una vettura che non fosse una MP4/4 riuscì ad arrivare al successo: la doppietta di Gehrard Berger e di Michele Alboreto sul circuito brianzolo fu quasi un miracolo dal cielo, orchestrato da quell'Enzo Ferrari morto due settimane prima. A Silverstone, infine, fu il solo transalpino che tornò ai box con le orecchie basse per via di un GP bagnato che aveva portato ben oltre il suo limite la sua capacità di guida in condizioni difficili. A conti fatti, il 1988 fu un anno magico per il team McLaren e per un Ayrton Senna che vinse il suo primo Titolo Mondiale portando la MP4/4 sul tetto del mondo: ad oggi la monoposto britannica è ancora la più vincente di tutti i tempi, con 15 trionfi su 16 GP disputati, 15 pole position e 199 punti nella classifica Costruttori. Un record ineguagliabile, che la fa entrare di diritto nella Hall of Fame delle vetture più iconiche della storia della Formula 1 come l'ultima a segnare la fine della pazza epoca turbo. I 333 km/h sul lungo rettilineo nella foresta di Hockenheim, così come i giri lanciati di Senna sulle stradine del Principato di Monaco, con quel fischio inconfondibile della turbina in pressione rimarranno sicuramente dei ricordi indelebili nella memoria di tutti gli appassionati!
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